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  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 febbraio 1983
 
di Franco Zeffirelli, con Teresa Stratas, Placido Domingo (Italia, 1982)

Diciamolo francamente: questo Zeffirelli e di gran lunga più sopportabile di quello che pretende filmare drammoni contemporanei. Anche se cade invariabilmente nell'illustrazione da cioccolatino (le scene all'aperto con il flou del peggior Hamilton, i cavalli sfocati e le colombe che tubano, le foglie che ingialliscono e i cancelli di ferro battuto, e tanti tanti fiori come nelle istantanee della gita aziendale al giardino botanico) quando il cinema estetizzante di Zeffirelli incontra il melodramma, qualcosa funziona. E qui funzionano le scene corali, le feste e le danze nei saloni stracolmi di addobbi con i personaggi ripresi in continuo movimento: organizzazione dello spazio che un uomo di teatro come Zeffirelli indubbiamente conosce. Funzionano anche gli approcci intimi della cinepresa ai protagonisti, con una Teresa Stratas che si rivela straordinariamente duttile davanti alla camera (un po' meno Placido Domingo).

Ma il discorso da farsi, piuttosto che su un bilancio del genere, mi sembra un altro. E mi sembra riguardare più lo studioso musicale, lo specialista del melodramma che non il critico di cinema, intento a sottolineare limiti e meriti ormai ben noti del Zeffirelli cineasta.

L'intervento cinematografico sulla struttura tradizionale del capolavoro verdiano non appare infatti malvagio: si parte dalla fine, con Violetta sul punto di morte, e si ritorna con dei flash-back a ricostruire la vicenda secondo degli interventi cinematografici, più o meno riusciti. Ma fino a che punto ogni intervento che miri a togliere il melodramma dal suo spazio originale, il palcoscenico, è operazione utile? È utile, cioè, annullare quella distanza (e quindi quella distanziazione) che separava lo spettatore dalla scena? È utile intervenire all'interno, quindi realisticamente (anche se si distorce l'immagine con degli sfuocati, o si colora di giallo o di blu la fotografia, e via dicendo) di una storia che serve soprattutto da supporto a una struttura musicale?

Il risultato, ci pare, è contrario all'idea musicale per eccellenza, perché tende a privarla dell'astrazione.

Due voci in lontananza, due discorsi che s'intendono a malapena, delle scenografie che fanno da supporto a una trama seguita distrattamente tendono alla fusione dei diversi linguaggi espressivi, (quello musicale, quello teatrale, quello scenografico, ecc.) per fonderli in un'impressione unica, quella che conduce alla trascendenza e alla poesia. Il cinema ha un suo modo per intraprendere quella strada della trascendenza, ma è dubbio che esso possa ricalcare quello inteso a suo tempo da un musicista di nome Verdi. Il rischio non è soltanto quello di riuscire o meno una trasposizione musicale e teatrale: ma quello, assai più grave, di alterare i significati più intimi ed eterni del capolavoro verdiano.


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